#lotta al narcotraffico
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Alessandria. Delivery della droga smantellato dai Carabinieri in città.
Quattro gli indagati ritenuti responsabili dello spaccio in centro e in zona Cristo.
Quattro gli indagati ritenuti responsabili dello spaccio in centro e in zona Cristo. Alessandria – Un vero e proprio delivery market della cocaina, con offerte, sconti e consegne a domicilio, reso più efficiente grazie alla costante attività di fidelizzazione del cliente attraverso richieste di feedback sulla qualità del prodotto e del servizio. È finita questa mattina, dopo l’esecuzione…
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Catania, sequestro record di 540 chili di cocaina in mare: cinque arresti tra cui quattro italiani e un serbo
A Catania, le forze dell'ordine hanno compiuto un importante sequestro di cocaina che ammonta a 540 chilogrammi, con un valore stimato di oltre 100 milioni di euro. L'operazione, coordinata dalla procura distrettuale del capoluogo etneo, ha portato all'arresto di cinque persone, tra cui quattro italiani e un serbo, membri dell'equipaggio di un peschereccio sospetto. L'intervento è stato reso possibile grazie a un'attenta attività di monitoraggio delle rotte marittime tra Ragusa e Catania, condotta dal comando provinciale della guardia di finanza di Catania, in collaborazione con i reparti operativi aeronavali di Palermo e Pratica di Mare e con il supporto dello Scico. Le autorità hanno individuato movimenti anomali in mare, dove il peschereccio stava recuperando diversi colli galleggianti. Durante l'ispezione a bordo dell'imbarcazione, sono stati trovati 18 colli, ognuno del peso di circa 30 chilogrammi, confezionati in modo da resistere all'infiltrazione d'acqua e mantenuti a galla da specifici dispositivi. Secondo le indagini, la droga era stata probabilmente scaricata in mare da una nave cargo in transito, per essere poi raccolta con il sistema del "drop off" e trasportata a terra. L'operazione ha portato al sequestro di 450 panetti di cocaina e del peschereccio utilizzato per il recupero. I cinque uomini arrestati sono accusati di produzione, traffico e detenzione illecita di sostanze stupefacenti o psicotrope, reati aggravati dall'ingente quantitativo di droga trovato. Il giudice per le indagini preliminari di Catania ha convalidato sia gli arresti che il sequestro, segnando un importante successo nella lotta contro il narcotraffico. Le stime della guardia di finanza indicano che la droga sequestrata avrebbe potuto generare guadagni illeciti per oltre 100 milioni di euro, destinati ad alimentare il mercato della droga siciliano. Questa operazione si inserisce in un contesto più ampio di contrasto al narcotraffico, che vede le forze dell'ordine impegnate nel monitoraggio delle rotte marittime, spesso utilizzate per il trasporto di grandi quantitativi di sostanze stupefacenti. L'operazione dimostra come il coordinamento tra diverse unità e l'utilizzo di tecnologie avanzate siano essenziali per combattere il crimine organizzato e proteggere il territorio da attività illecite di questa portata. Read the full article
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Personaggio eclettico, Rostagno approdò in Sicilia dopo diverse esperienze. A Trento era stato protagonista nelle lotte studentesche ed era anche stato tra i fondatori di Lotta Continua. Dopo una lunga permanenza a Milano, Rostagno creò il circolo ��Macondo”, prima di andare in India a seguire le orme del guru Osho. In Sicilia il piemontese non si occupava solo della Saman. Da giornalista aveva il brutto vizio di avventurarsi per soddisfare la sua curiosità. Così cominciò a denunciare gli intrighi mafiosi attraverso Radio Tele Cine, una televisione locale di cui divenne presto il principale animatore, discutendo di mafia e malaffare, con tanto di nomi e cognomi. Tra marzo e giugno 1988, Rostagno rivelò a una sua collaboratrice che era stato chiamato da alcuni personaggi influenti trapanesi che gli avevano consigliato di lasciar perdere la sua inchiesta sulla loggia massonica Scontrino. Nello stesso periodo Mauro stava raccogliendo, in gran segreto, materiale per una sua ricerca fondata su una tesi che vedeva collegamenti precisi tra l’omicidio del giudice Ciaccio Montalto, le indagini da questi portate avanti, la famiglia Minore di Trapani, il boss Mariano Agate e alcuni imprenditori catanesi. C’era anche un’altra pista che toglieva il sonno a Rostagno. Si era accorto per puro caso che nella zona di Lenzi vi era un traffico di armi, a due passi dalla comunità Saman, dove sorgeva l’ex aeroporto di Milo, in disuso ormai da anni. Dopo la boscaglia, c’erano dei tunnel sotterranei tra Lenzi e il vecchio aeroporto militare. Un posto sicuro dove svolgere operazioni coperte, al riparo da occhi indiscreti. Il giornalista Sergio Di Cori confermò che Rostagno era a conoscenza «di un traffico d’armi che avveniva in una pista aerea in disuso che si trova nei pressi di Trapani. Aveva fatto delle riprese con una telecamera». La scoperta era stata casuale e venne fatta una sera che il giornalista si era appartato con la moglie di un alto ufficiale, in un boschetto dei dintorni. Rostagno filmò la scena in cui casse di medicinali, pronte per essere portate in Africa, venivano sostituite da casse di armi. Tutto documentato in una videocassetta sulla quale Rostagno scrisse: «Non toccare». Emerse così un sistema di connessioni indicibili. Traffici di armi e droga gestiti dalla potente mafia trapanese, con «coperture» insospettabili, a partire dai militari in servizio all’aeroporto di Birgi. Ma anche con coperture politicamente targate Partito socialista. Spuntò fuori che uno dei maggiori referenti socialisti a Trapani era proprio Francesco Cardella, il guru della Saman e braccio destro di Rostagno, che nella testimonianza del vice questore Giovanni Pampillonia avrebbe utilizzato «le scatole vuote della struttura, per gestire traffici di armi con la Somalia, dove il guru avrebbe inviato un suo emissario, ufficialmente, per realizzare un ospedale mai costruito». Il nome dell’emissario era Giuseppe Cammisa (detto “Jupiter”), imparentato con l’avvocato Antonio Messina, boss del narcotraffico di Campobello di Mazara. Una ricostruzione non suffragata, però, dalle sentenze giudiziarie. Di certo Cammisa fu l’ultimo a incontrare in Somalia la giornalista della Rai Ilaria Alpi, prima che questa fosse uccisa. Il 26 settembre 1988, due killer freddarono Mauro Rostagno mentre rientrava in comunità a bordo della sua Duna bianca. Era di ritorno dalla tv, dove aveva condotto il telegiornale. L’auto fu fermata da due uomini che gli spararono con un fucile a pompa e una pistola, uccidendolo sul colpo. Rostagno aveva quarantasei anni. Due mesi prima, aveva incontrato il giudice Giovanni Falcone.
Franco Fracassi - The Italy Project
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Si chiamava Benjamin e aveva 17 anni. A inizio mese anche lui era stato arrestato dalle autorità libiche in quell’enorme rastrellamento condotto dal governo, ufficialmente per motivi di sicurezza e di lotta al narcotraffico, che ha portato nei centri di detenzione ufficiali oltre 5.000 persone rinchiuse nelle solite condizioni che tutto il mondo conosce. Viene perfino difficile riscriverlo di nuovo, eppure i migranti intrappolati in Libia continuano a chiederlo: continuate a scrivere, scrivono, voi giornalisti continuate a raccontare come siamo noi qui, prima o poi qualcosa si muoverà. [il mio pezzo per @ilriformista lo potete leggere scorrendo le foto oppure come sempre in forma testuale tra i link in bio] (presso Libya Tripoli) https://www.instagram.com/p/CVpcwELtbJm/?utm_medium=tumblr
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Il Ministro Lamorgese invoca pene più severe per i pusher. Pur comprendendo le preoccupazioni espresse dal Ministro, Antigone chiede di evitare l’ennesimo intervento di solo inasprimento delle pene per riaprire un dibattito sulle droghe più equilibrato ed efficace.
“La legalizzazione delle droghe leggere restituirebbe più sicurezza ai cittadini eliminando alla radice lo spaccio di strada contro cui il Ministro cerca un rimedio efficace. Legalizzare significa sferrare un duro colpo al narcotraffico e sfoltire le aule dei tribunali” dichiara Patrizio Gonnella, Presidente di Antigone.
Cosa accadrebbe alle mafie se ci fosse la legalizzazione? Quanto guadagnerebbe lo Stato dalla legalizzazione della cannabis? Quanto risparmierebbe non incarcerando in massa i consumatori? Quanti vedrebbero migliorate le proprie condizioni di salute grazie al consumo di sostanza controllate o al non ingresso nel circuito penale e penitenziario? Quanti processi in meno ci sarebbero e quanti poliziotti in più potremmo utilizzare per reprimere il crimine organizzato?
Anche l’allora Procuratore Nazionale Antimafia Franco Roberti si era espresso a favore della legalizzazione, i cui benefici sarebbero evidenti per il nostro paese: lotta e contrasto alla criminalità organizzata, alla microcriminalità che vedrebbe drasticamente diminuire reati direttamente collegati al consumo di sostanze, tutela della salute ed introiti per le casse dello Stato (diretti, provenienti dalla tassazione, e indiretti provenienti dal recupero delle risorse attualmente spese per operazioni di polizia, per i tribunali e per i costi del sistema penitenziario, questi ultimi quantificabili in circa 1 miliardo di euro l’anno).
“In Italia ben conosciamo i risultati che porta l’inasprimento delle pene come politica di prevenzione del crimine – sotiene Patrizio Gonnella. Dal 2006 al 2014 è stata in vigore la Fini-Giovanardi che non portò nessun beneficio in termini di riduzione del traffico e del consumo di droghe ed ha invece riempì le carceri. Le persone detenute per violazione delle leggi sugli stupefacenti, storicamente negli ultimi anni intorno al 32-33% del totale della popolazione ristretta, erano arrivate ad essere il 41% del totale, cosa che aveva inciso sul sovraffollamento penitenziario, da cui era scaturita la condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per trattamenti inumani e degradanti. Dunque – conclude il Presidente di Antigone – la soluzione non va ricercata in pene più severe, ma in un cambio radicale di politiche, come hanno fatto alcuni stati americani, il Canada, il Portogallo e come anche altri stati europei stanno pensando di fare”.
La guerra alle droghe è fallita. L’Italia, sul solco delle esperienze di altri paesi, deve cambiare nettamente rotta. C’è bisogno di una rivoluzione pragmatica che lasci la morale fuori dal diritto.
Andrea Oleandri
Ufficio Stampa Associazione Antigone
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Ecco perché l’Amazzonia è un territorio di morte
Nel documento finale del Sinodo si accenna ai drammi e crimini orribili diffusi in Amazzonia, ma dando spiegazioni generiche e imprecise per una realtà che interessa ben 9 Paesi. La terra si sta sì “dissanguando”, ma la colpa non è proprio delle multinazionali, come sostiene la vulgata socialista, bensì dell’azione impunita di gruppi criminali locali (Farc comprese). Che controllano non solo le miniere illegali ma tutta una serie di traffici, spesso sfocianti in bagni di sangue.
di Marinellys Tremamunno (10-11-2019)
Il Sinodo sull’Amazzonia è finito, ma la situazione è tutt’altro che positiva. Paradossalmente, dopo un mese nell’occhio del ciclone, la foresta amazzonica appare ancora oggi come un territorio abbastanza sconosciuto, solcato da tanti miti e leggende urbane che da questa parte dell’oceano rendono difficile la sua comprensione. E, giustamente, il documento finale approvato dai Padri sinodali ha fatto appello per la difesa di questo “cuore biologico” (paragrafo 2), considerando che contiene una delle biosfere geologicamente più ricche al mondo; tuttavia, è altrettanto importante capire che si tratta anche di un “luogo di dolore e violenza” (paragrafo 10).
Nonostante l’immagine romantica del territorio che il Sinodo ha voluto vendere, il documento finale non ha potuto nascondere il dramma umano lì presente: “malattie derivate dall’inquinamento, traffico di droga, gruppi armati illegali, alcolismo, violenza contro le donne, sfruttamento sessuale, tratta di esseri umani, vendita di organi, turismo sessuale, e assassinii” (paragrafo 10).
Quali sono le cause di questo inferno? “Dietro ci sono gli interessi economici e politici dei settori dominanti, con la complicità di alcuni governanti e alcune autorità indigene”, si legge nel documento finale (paragrafo 10). Una risposta alquanto generica e imprecisa, per una realtà così complessa e grande che comprende nove Paesi sudamericani (6.7 milioni di km²), per cui è bene presentare un elenco dei problemi più gravi che affrontano gli abitanti dell’Amazzonia e le loro cause. Una chiave di lettura obbligata per capire perché l’Amazzonia è un territorio che genera morte.
La quotidianità in Amazzonia è, in gran parte, una cronaca di orrore. L’11 giugno è stato ucciso il sindacalista Carlos Cabral Pereira a Rio María, nel sud dello Stato di Pará (Brasile), dopo che aveva denunciato pubblicamente le minacce contro di lui. È il terzo presidente dell'Unione dei lavoratori rurali di Rio María assassinato. Lo scorso luglio, è stato trovato morto il “cacique” Emyra Waiapi, dopo che i minatori illegali armati avevano invaso un villaggio indigeno nello Stato di Amapá (nord del Brasile). La terra dell’etnia Waiapi, che si trova a circa 200 km dalla Guyana Francese, è ricca di oro, manganese, ferro e rame.
Il Brasile comprende il 70% dell’Amazzonia e non a caso occupa il primo posto nella lista dei Paesi con il più alto numero di omicidi causati da conflitti rurali nel mondo, con una cifra di 1.678 cittadini uccisi tra il 1985 e il 2003 e 57 solo nell’anno 2017. Il rapporto della Commissione pastorale della Terra di Brasile (CPT) mette in evidenza la lotta per la terra amazzonica: il 49% dei 1.489 conflitti registrati nel 2018 nelle campagne del Brasile si è verificato nella regione amazzonica e, delle 960.630 persone coinvolte, il 62% (599.084) sono abitanti dell’Amazzonia.
In questa lotta, i “garimpeiros” emergono come saccheggiatori della foresta alla ricerca dell’oro. L’attività mineraria illegale ha distrutto migliaia di ettari dal Perù, passando attraverso l’Ecuador, la Colombia, il Brasile e arrivando fino al Venezuela. In alcuni territori cercano l’oro manualmente, in altri usano persino macchine industriali, lasciando veri crateri in mezzo al bosco.
Oltre alla devastazione ambientale, c’è anche l’inquinamento per il mercurio e l’arsenico, usati come amalgama per separare l’oro dagli elementi di scarto, che contaminano l’acqua e i frutti della natura, causando gravi danni neurologici e malformazioni ai bambini. Lo ha confermato uno studio realizzato nel 2016 dalla Fondazione Oswaldo Cruz (Fiocruz) e dall'Istituto Socio-Ambientale (ISA): in alcuni villaggi della etnia “Yanomami” il tasso di contaminazione da mercurio raggiunge il 92%.
In Brasile, ci sono almeno 453 miniere illegali, secondo la mappa presentata dalla Rete Amazzonica di Informazione Socio Ambientale Georeferenciada (RAISG). Ma in Venezuela, dove si trova l'85% dell’attività mineraria illegale, la RAISG ha conteggiato almeno 1.781 miniere all’inizio di quest’anno. Da evidenziare che ogni miniera può comportare la devastazione da due fino a dieci ettari e, al tempo stesso, porta con sé violenza, narcotraffico, prostituzione, malattie e tanto degrado sociale.
Tutto ciò sotto la protezione della guerriglia colombiana. Il governatore dello stato “Amazonas”, Liborio Guarulla, membro dell’etnia “Baniva”, lo ha confermato all’agenzia Reuters, sottolineando che le Farc si nascondono in territorio venezuelano, con il beneplacito delle forze armate venezuelane. “Quando gli indigeni si lamentano, vengono immediatamente repressi”, ha affermato Guarulla e ha spiegato che i 20.000 indigeni “Yanomami” che abitano nella foresta venezuelana sono diventati schiavi dei “garimpeiros”.
C’è una vasta rete di crimine organizzato che controlla non solo le miniere illegali, ma anche il taglio illegale del legno, venduto poi all’Europa. Così la foresta primaria viene tagliata e deturpata, aprendo la strada a ulteriori attività di allevamento e di agricoltura estensiva. L’aveva denunciato nel 2015 Greenpeace e lo scorso settembre lo ha confermato il rapporto della Human Rights Watch. “Queste reti criminali hanno la capacità logistica di coordinare tutte le fasi, dall’estrazione del legname su larga scala alla lavorazione e consegna ai mercati nazionali ed esteri”, si legge nel documento di 169 pagine. Secondo l’indagine, i gruppi criminali che operano nel territorio amazzonico sono riusciti a creare un esercito di miliziani che garantiscono impunità e lasciano una lunga scia di sangue che nell’ultima decade ha prodotto almeno 300 morti. Sono i dati ufficiali dei registri della Commissione pastorale della Terra e della Procura generale del Brasile. La realtà potrebbe essere ancora più macabra.
Quindi la colpa non è proprio delle multinazionali, come ha voluto evidenziare la vulgata sinodale: «La terra ha sangue e si sta dissanguando, le multinazionali hanno tagliato le vene alla nostra “Madre Terra”. Vogliamo che il nostro grido indigeno venga ascoltato da tutti», si legge nell’Istrumentum Laboris (paragrafo 17). Quindi è vero, la terra si sta “dissanguando”, ma per l’azione impunita di gruppi criminali locali, che si avvalgono della corruzione, spesso governativa, per controllare il vasto territorio amazzonico.
Così l’Amazzonia naviga tra la vita e la morte, tra la sua esuberante bellezza naturale e i soliti discorsi socialisti contro le multinazionali. Infine, l’Amazzonia è un territorio stigmatizzato dalla disinformazione: “In Europa, pochi sanno che l'Amazzonia è altamente urbanizzata. Che la luce elettrica è arrivata prima a Manaus che a Rio de Janeiro. Che si fabbricano i microchip. Che i bambini sono collegati ai social network. Che l’elemento urbano, le strade, le magliette, le bottiglie di soda, sono presenti in quasi ogni angolo. Il mito dell'esotismo, di quell’angolo di tribù vergini e biodiversità, è solo quello, un mito”, ha affermato in un’intervista il giornalista Bernardo Gutiérrez, autore del libro “Calle Amazonas”.
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Russia distratta, il porta a porta di Washington in America Latina
Tour del segretario di Stato Usa Blinken, prima tappa in Colombia. In agenda: lotta al narcotraffico e equilibri geopolitici in America Latina
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Il trailer ufficiale della terza stagione di Narcos: Messico
Il trailer ufficiale della terza stagione di #NarcosMessico Dal 5 novembre su #Netflix
Netflix ha diffuso quest’oggi il trailer ufficiale della terza stagione di Narcos: Messico, spin-off della fortunata serie incentrata sulla sanguinosa storia del narcotrafficante Pablo Escobar. Attesi per il prossimo 5 novembre, i nuovi episodi (gli ultimi dello spin-off dedicato alla lotta al narcotraffico in Messico) saranno ambientati negli anni ’90. Netflix potrebbe andare avanti con il…
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Le Male Storie
"Mentre in Europa vi bombardavate, a Bogotà costruivamo biblioteche". A un amico intellettuale piaceva ripetere questo aneddoto quando parlava della Capitale come dell'Atene dell'America Latina. Mi mostrò anche i piani urbanistici di Le Corbusier che aveva previsto tutta una serie di svincoli stradali e quartieri periferici prima ancora che l'ondata di urbanizzazione iniziasse, quando Bogotà era una piccola cittadina a 2600 metri sopra il mare, unica capitale lontana dalle coste (se si esclude La Paz) con lo scopo di unirle nel paese che ha sbocchi sia sul pacifico sia sull'atlantico. Poi però, mentre l’Europa ripartiva dalle macerie, la Colombia sprofondava in un’epoca di violenze che non sono ancora terminate.
Per alcuni scienziati sociali ed attivisti, l'assassinio, nell'aprile del 1948, del primo leader populista del continente, Jorge Eliecer Gaitan, rappresenta un momento simbolico dei cammini politici colombiani. Era di origini indigene, sindaco di Bogotà ed aspirava alla poltrona presidenziale. Idealmente la sua morte diede il via ad un’epoca tristemente famosa e ricordata come “la violenza” in cui vecchie divisioni politiche tra conservatori e liberali si mischiarono ad odi più intimi. Vi furono ondate di uccisioni e linciaggi spesso troppo locali per essere propriamente intesi politicamente nelle successive ricostruzioni storiche (1, 2, 3, 4). Mentre il resto del mondo coloniale entrava dentro guerre di decolonizzazione e si liberava del nemico straniero, la Colombia sembrò dover fare i conti con il suo passato in forme del tutto diverse. Lo scontro avvenne dentro le relazioni di patronato basate ancora su organizzazioni radicate nel colonialismo como il sistema delle haciendas\latifondi (la piantagione) e delle miniere. Le clientele e gli assoldati si schierarono per un Patròn o per l’altro e solo in alcune aree del Paese mossero verso un rinnovamento delle relazioni produttive. "La violenza” è ancora oggi ricordata come un’epoca buia, quasi di imbarbarimento generalizzato anche perchè fu uno scontro tra elite emergenti e\o al potere da tempo. Fu una guerra tra potentatati, di quasi-regni alleati o in guerra, organizzati intorno a poteri tanto burocratici quanto militari. Non ci fu però una chiara demarcazione territoriale. Al contrario, la fedeltà ad una fazione piuttosto che l’altra rimaneva locale, legata allle relazioni nelle piantagioni o nelle miniere e non riguardava necessariamente più ampie richieste di emancipazione.
Dopo circa 20 anni ed almeno 200.000 morti, quei conflitti intestini si riconfigurarono e furono reinterpretati attraverso la lotta di classe producendo attacchi più mirati verso un ideale centro del potere. Gli obiettivi rimasero la terra e le sue haciendas. Riguardavano ancora il complesso mondo delle miniere. Ma guardavano anche alle istituzioni urbane emerse negli scontri precedenti che iniziavano a produrre modelli sempre più invasivi di consumo e sfruttamento dei territori. Iniziò così una seconda epoca di “violenza” segnata dalla proliferazione di gruppi armati e dalla guerra fredda che si è conclusa, almeno ufficialmente, nel 2016, con circa 230.000 morti. Lo scontro avvenne dentro due macro fazioni opposte. Da un lato c’erano i guevariani dell'ELN, i marxisti-leninisti delle FARC, i maoisti dell'EPL, i situazionsiti del M19, la guerriglia indigena del Quintin Lame, il movimento delle autonomie afro con i Cimarrrones. Dall’altro si contavano eserciti privati di mercenari organizzati da ricchi propietari terrieri o dai diversi clan dediti al narcotraffico e le forze regolari, l’esercito e la polizia. Questa costellazione di forze e volontà armate produceva periodicamente incontri\scontri ed alleanze\tradimenti che scombinavano le originali divisioni ideologiche e di parte. Le categorie sono quindi da considerarsi fluide. Nel corso degli anni, si registrarono molti casi di disertori o gruppi che cambiarono fazione in base alle condizioni del conflitto. In circa 40 anni vi sono stati anche diversi cambi di influenza e di controllo da parte degli attori armati sui territori. Localmente queste “trasformazioni” hanno prodotto una confusione quasi ontologica tra gruppi in armi che segnerà una specifica esperienza quotidiana della guerra da parte della popolazione civile. Ad agenzie che danno nomi e definiscono un gruppo rispetto all’altro, corrispondono infatti gli abitanti di villaggi e quartieri nei margini che rispondono alle loro necessità di vita adattandosi alle diverse entità armate ed alla loro fluidità, per esempio, avvicinandosi ai voleri degli uni o degli altri in base alle diverse condizioni del conflitto.
Un mondo siffatto potrebbe essere interpretato seguendo i parametri hobbesiani, di una guerra civile protratta, in cui il contratto sociale viene periodicamente messo in discussione. Ma potrebbe anche svelare qualcos’altro. Per esempio che questa guerra civile è una condizione permanente e non un’anomalia. Seguendo questa analisi il conflitto in atto sarebbe una matrice sulla cui base “possono e devono” intendersi non solo le tattiche e le lotte di potere ma anche specifiche forme di accumulazione di capitale e le locali relazioni produttive o di scambio (1). Invece di una guerra di tutti contro tutti, si delinerebbe un capitalismo violento e predatorio ordinato intorno all’economia bellica. Bisogna quindi provare a ripensare radicalmente i sistemi politici colombiani, quelli andini, amazzonici o costieri, a partire dalla funzione produttiva della violenza, adattando teorie e studi già esistenti, per esempio, sull’indigenismo amazzonico (1) o sui sistemi politici africani (1) o indiani (1) Ma si tratta anche di ripensare le relazioni tra attori armati (regolari e non), entità economiche nazionali ed internazionali (le private corporate) e la popolazione civile.
Per poter seguire appieno queste traiettorie bisognerebbe riconoscere prima di tutto l’impossibilità di adottare visioni weberiane e, per certi versi, eurocentriche, dei processi politici in esame. In questa direzione, alcuni studiosi, hanno descritto, in Colombia, una democrazia ibrida e “violentemente plurale” (1, 2, 3) in cui l’incapacità dello Stato di affermare il monopolio sull’uso della forza non rappresenta un fallimento dell’apparato burocratico, ma la manifestazione di una sua inerente molteplicità. Nella fondazione delle istituzioni locali, sarebbe cioè latente un conflitto irrisolvibile tra poteri ufficiali e di fatto. La loro stessa esistenza si sostanzia in una contesa quotidiana per legittimità, spazi di influenza e risorse. In questa lotta, i diversi “corpi sovrani” si compenetrano, si confondono, si escludono vicendevolmente e mutano insieme al cambiare delle necessità economiche e delle condizioni politiche del conflitto. Si potrebbe così meglio intendere la coesistenza di istituzioni apparentemente democratiche con prolungati livelli di violenza armata.
La storia di Gaitan dice però anche qualcos’altro. Il numero di leader sociali uccisi o scomparsi infatti non pare mai arrestarsi. E’ una ripetizione storica degli stessi dispositivi di potere che seguono una precisa strategia di contenimento del dissenso. Le vite di tanti messia del popolo vengono sistematicamente interrotte prima che possano realmente incamminare una rivoluzione o un cambiamento radicale. Uno degli effetti di questa improvvisa assenza è la diffusione di leggende su “padri” che seppero parlare al cuore ma cui non venne mai dato il tempo di fare. Fondarono così una patria inconclusa, sempre a metà del cammino, da qualche parte che non si sa bene dove sia, a volte nei colori della squadra di calcio nazionale, altre in quelli dell'esercito, altre ancora in quelli dei suoi movimenti pacifisti o dei suoi sindacati. Ma se esiste un'origine del pensiero ribelle colombiano credo dovrebbe ricercarsi proprio nell'attitudine a non credere in dei ed eroi per evitare delusioni, a non aspettarsi mai grandi cose perchè tanto tutto cambia molto in fretta e, insieme, a saper vivere la passione della rivolta, perchè la rivolta in Colombia è un fatto ineludibile e necessario che periodicamente prende forma tra le strade delle città maggiori per poi espandersi a quelle dei margini e viceversa.
In questa prospettiva racconterò come il maggior porto commerciale del Paese, Buenaventura, venne bloccato da una rivolta popolare causata dai continui razionamenti di acqua corrente resi ancora più duri da un inaspettato periodo di siccità che lasciò vuote le cisterne delle case di molti quartieri non collegati all’acquedotto cittadino. La rivolta provocò il blocco di tutte le vie di acceso alla città per circa due settimane, nel gennaio del 2011, 10 anni fa. Si tratta di un evento che non ebbe grossa risonanza mediatica nazionale e che anzi sembrò partecipare di una certa normalità della vita politica del paese di quegli anni. I blocchi stradali erano una delle forme di protesta più comuni nelle zone meno urbanizzate o lontane dai riflettori mediatici. I blocchi indigeni della via panamericana nel distretto del Cauca avevano ormai un'aura magica, quasi di rito di iniziazione cui ogni luchador social aveva partecipato almeno una volta nella vita. Ma anche quelli non facevano notizia, segnavano semmai dei solchi tra le forme della lotta e le ritorsioni della polizia e delle squadre antisommossa, emanazione, se non proprio riciclo, dei gruppi paramilitari che di "notte" commettevano assassini selettivi.
Il blocco del Puerto invece costrinse un'interruzione prolungata di alcune industrie nazionali (soprattutto trasporto e metalmeccanica) che si trovarono senza componenti visto che molte navi rimasero in mare in attesa di poter scaricare il loro carico. La portata dell'evento produsse effetti e ritorsioni che durarono alcuni anni, in forma stranamente lenta rispetto alle normali dinamiche politiche colombiane, in cui la vendetta di solito veniva consumata a caldo e nel minor tempo possibile, in modo da chiarire subito gli ordini di forza in campo. Nel caso del blocco del Puerto accadde qualcosa forse di inaspettato perchè fuori da vere e proprie dinamiche organizzative note alle agenzie di controllo. Emerse spontaneamente dalla stanchezza e dalla rabbia ed ebbe la funzione di ricucire, per alcuni giorni, un tessuto cittadino lacerato da anni di guerre intestine. Questo espose una capacità di organizzazione politica dal basso che non si era vista da molto tempo e che intaccò le certezze di dominio dei vertici politici e militari del paese. Per questo venne trattata con estrema cautela ed altrettanta intransigenza. Mentre da un lato si riconoscevano pubblicamente le richieste della cittadinanza con promesse e proclami, dall'altra si osservava chi prendeva parola, come lo faceva e dove si rifugiava. A distanza di 3 anni dagli eventi, alcune delle persone più attive in quei giorni furono costretti a rifugiarsi fuori da Buenaventura (anche se per ragioni diverse dal blocco), alcuni furono ritrovati morti (ufficialmente “per debiti non pagati” o per “regolamenti di conti tra bande” non relazionabili alla rivolta), altri iniziarono a dedicarsi con assiduità a droghe ed alcool. Altri ancora si trovarono ad essere superati da nuovi leader del movimento afro, supportati dal ministero degli Interni. Come e perché ciò accadde non sarà propriamente il tema delle prossime pagine.
Si tenterà invece una ricostruzione degli eventi a partire da un'indagine antropologica. Si racconterà cioè cosa implicò e dove condusse la rivolta in un quartiere all'ingresso della città non direttamente toccato dai blocchi stradali ma sempre in ascolto, quasi eccitato in quei giorni di ribellione. I modi in cui le storie di quartiere si intrecciarono a quelle della città ed alla rivolta sono l'elemento di vero interesse di questo racconto. Come cioè personaggi locali iniziarono ad avere un ruolo in quegli eventi e come quegli eventi divennero più grandi di loro fino a non sapere più se ci fossero stati spinti dentro per eccesso di curiosità o se avessero veramente chiaro cosa stava accadendo. Non c'era nessun Che Guevara tra loro. Erano anzi sbeffeggiati in quanto reietti (bavosos) se non proprio definiti come individui pericolosi da settori più vicini alla polizia.
In quei giorni improvvisamente però riaccesero una scintilla in più di qualcuno. A bordo delle loro moto o sulle loro scarpe consunte si indaffaravano a portare vettovaglie ai blocchi ed a rifocillare gli occupanti. Attraverso i loro occhi più d'uno o una sembrarono cogliere che qualcosa stava accadendo per davvero e che valeva la pena dare una mano a chi stava laggiù sull'avenida del libertador. Il vero evento fu che molte di queste persone solevano mantenersi dentro le barricate casalinghe per paure ormai consolidate della guerra che si combatteva in città da almeno un decennio. Poco alla volta, invece, chi più chi meno, iniziò a cucinare un pò di riso in più o metteva da parte un cesto di banane da mandare a quei locos che bloccavano il Porto. Un fischio al motoratton che passava di lì ed ecco che partiva del cibo, un pò di frutta appena raccolta, acqua con erbe miracolose e chissà cos'altro. Poi certo, tutto si spense e ricominciò l'insulto quotidiano. Ma come imparai in quei giorni, quella resistenza che decideva per l'ennesima volta di assumersi un grande rischio che molti avrebbero pagato a caro prezzo poteva essere intesa solo da dentro una condizione di incertezza permanente, per cui gli eroi morivano sempre e per questo non ce n'erano più. Bisognava invece imparare a "giocare da vivi" e seguire le maree. Quando l'acqua lo permetteva si lasciavano i propri 5 centesimi di contributo. Quando si era in tempesta non si poteva far altro che riparare in casa e cercare di capire come salvarsi dall'ennesima mareggiata.
Va detto che centrare l'attenzione su quegli eventi, su cosa li scatenò e cosa accadde poi è una scelta arbitraria, forse propriamente antropologica, frutto di una decisione di chi scrive piuttosto che di una reale necessità di ricordare quei fatti. Anzi durante il mio ultimo viaggio a Buenaventura , nell'aprile 2014, in molti risposero con un sorriso e un non ricordo ai miei tentativi di parlare ancora di quei giorni. Proprio questo oblio ha però reso ai mio occhi più interessante quel blocco. Nella mia vita mi è capitato di assistere e partecipare a diversi blocchi stradali di natura politica. Fin dall’anti G8 di Rostock nell'ormai lontano 2007 per poi arrivare agli interminabili Chaka Jam nepalesi del 2008 e 2009 in cui l'unica arteria del paese, la Mahendra highway, veniva bloccata periodicamente per settimane intere, fino all'Italia del movimento No Tav, e i giorni del blocco della autostrada A32 nel 2012. In ogni circostanza era possibile ricordare e discutere di cosa accadde in quei giorni e per quali ragioni stava avvenendo.
Nel caso di Buenaventura nello stesso quartiere in cui trascorsi la prima settimana del blocco, quella memoria era stata se non proprio cancellata, resa futile dalle necessità della vita che non lasciavano spazio a rimemorazioni di proteste tanto eclatanti e rischiose. Si doveva andare avanti. La memoria fu poi quasi sovrascritta dai successivi scioperi civici che riguardarono tutta la città e che quasi a cadenza annuale riuscirono a fermarla anche se non in forma così netta e rabbiosa come accadde all’inizio del 2011. Solo in quei giorni infatti la logistica si fermò per davvero e le strade principali furono illuminate da falò notturni. Come appresi successivamente, le ragioni di questo oblio erano multiple ma ce n'era una che forse produceva silenzio più delle altre.
Da qualche tempo nei quartieri in cui vivevo erano sorti dei gruppi di autodifesa autoctoni che controllavano entrate ed uscite di persone "esterne". Non era la prima volta che una cosa del genere accadeva. In verità rappresentava una ripetizione delle dinamiche di controllo territoriale della città. Su questi gruppi locali di solito si innestava il gioco facile degli agenti del caos che producevano nuove battaglie alla bisogna. I media a volte li definivano come pandillas (gang o bande o maras) ed altre volte li associavano a un gruppo dedito al traffico di droga allora attivo a Buenaventura, i Rastrojos. Gli abitanti invece si riferivano a loro in altro modo, come il combo (il gruppo) o come i muchachos (ragazzi).
La nozione di “pandilla” era di solito utilizzata nel gergo poliziesco per definire qualsiasi gruppo giovanile che si assembrava in una zona marginale. La parola “combo” invece delimitava un sottogruppo della “pandilla” indentificabile in un territorio specifico e limitato. Per la polizia quindi diversi combos componevano una pandilla. A queste pandillas la Polizia affidava poi nomi che utilizzava normalmente per distinguere diverse zone ma non sempre i nomi identificavano vere e proprie reti territorializzate e organizzate di persone. Spesso gli stessi gruppi di giovani non sapevano di essere una pandilla o di avere un nome dato loro dalla Polizia. Potevano però riferirsi a loro stessi come al “combo” per identificarsi come gruppo di fratelli\amici. In molti casi, era impossibile definirli in base alla loro organizzazione interna, quindi attraverso capi o leader riconoscibili o attraverso riti di affiliazione. Inoltre molte “pandillas”, così genericamente definite, non erano armate oppure non disponevano di armi da fuoco ma usavano coltelli e pugnali “per difesa personale”. La loro identificazione però era utilizzata dentro le macrocategorie dell’insicurezza e partecipava dei dati su cui si pianificavano le azioni di controllo dei Quartieri. In ragione di queste politiche di identificazione, il numero di pandillas di città come Cali e Medellin, ma anche di Buenaventura, raggiungeva numeri decisamente allarmanti con più di 200 bande attive. Questo poi giustificava i fondi e gli investimenti nella “Difesa”.
Rimanendo invece alle definizioni locali e del quartiere, alcuni combo che conoscevo nella comuna presero parte al blocco. Secondo alcune ricostruzioni, la loro presenza ebbe un ruolo non di secondo piano nel cessate il fuoco temporaneo che fu imposto e che riguardò anche le forze armate regolari. E’ evidente che la questione dell’accesso all’acqua aveva creato ponti tra settori della popolazione altrimenti non in contatto. Tuttavia a Buenaventura non si sparò per due settimane e, all'epoca dei fatti, le sue strade registravano i tassi di omicidio tra i più alti della Colombia. Spiegare quindi quali dinamiche si misero in moto per rendere possibile questa rivolta che ribaltò il mondo conosciuto è molto complesso. Se però vi fu qualcosa di particolare e di innovativo, bisogna ricercarlo in quella solidarietà che riaffermò un “noi” che incluse inaspettatamente ragazzi che di solito “portavano la guerra in casa”. Gli abitanti li riconobbero pubblicamente invece di mantenerli nell'ombra o ai margini della vita sociale. Invece di neutralizzare la loro esistenza, attraverso l’esilio o l’assassinio, ne fu assimilata la sostanza. Questo atto permise la sovversione del mondo e fece vacillare le certezze di dominio.
Mi limiterò allora a descrivere chi si era attivato e come questo avesse procurato simpatia da settori del quartiere normalmente schivi se non proprio antisociali. Il fatto che tre di loro vennero poi uccisi, uno fu linciato ed un altro dovette rifugiarsi fuori da Buenaventura rappresenta un seguito della storia che solo in parte spiega il tentativo di aiuto che molti vollero riconoscere loro, come se già sapessero che quei "locos" stavano rischiando grosso. In parte credo che quell'aiuto arrivò perché più d'uno nel quartiere credeva che questa volta i "locos" non si stavano sbagliando. Questo a sua volta diede forza ai locos che osarono come da troppo tempo non accadeva. Vorrei allora provare a spiegare meglio questo dubbio che si instillò nelle menti di alcuni e che permise la creazione di un campo aperto dove prima c’erano frontiere psichiche difficilmente valicabili. Raramente mi è capitato di leggerne nelle narrazioni sulla guerra e la pace in Colombia.
"La Sola" nasce per sopperire a questa mancanza.
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ISELLE DI TRASQUERA – SEQUESTRATI 40 KG. DI FOGLIE DI KHAT
Iselle di Trasquera, 3 febbraio 2025 – Durante un controllo ordinario al valico stradale di Iselle, alla consueta domanda “Ha qualcosa da dichiarare?”, un cittadino extracomunitario rispondeva negativamente.
Iselle di Trasquera, 3 febbraio 2025 – Durante un controllo ordinario al valico stradale di Iselle, alla consueta domanda “Ha qualcosa da dichiarare?”, un cittadino extracomunitario rispondeva negativamente. I funzionari dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli e i militari della Guardia di Finanza, quotidianamente in presidio al valico stradale di Iselle di Trasquera, fermavano l’autoveicolo…
#abuso di sostanze#Agenzia delle Dogane e Monopoli#Alessandria today#analisi chimiche#anfetamina#arresto droga#catina#catinone#confine Italia-Svizzera#contrabbando#contrasto criminalità#controllo bagagli#controllo doganale#Droga#droga stimolante#effetti del khat#Google News#Guardia di Finanza#Guardia di Finanza Piemonte#Iselle di Trasquera#italianewsmedia.com#khat#laboratorio ADM#lotta al narcotraffico#normativa antidroga#Operazione Antidroga#operazioni antidroga Italia.#Pier Carlo Lava#polizia di frontiera#Prevenzione
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Lotta al narcotraffico, 4 arresti a Cagliari: sgominata un’associazione a delinquere a San Michele
Lotta al narcotraffico, 4 arresti a Cagliari: sgominata un’associazione a delinquere a San Michele
Leggi la notizia su Casteddu Online Lotta al narcotraffico, 4 arresti a Cagliari: sgominata un’associazione a delinquere a San Michele
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66 morti ammazzati al giorno. Omicidi dolosi, l’incubo del Messico. Almeno il 70% di questi - ma sono solo stime - sono dovuti alla cosiddetta narcoguerra, un conflitto armato interno che dura da 11 anni. Nata come una strategia di lotta militarizzata ai cartelli della droga nel dicembre 2006, primo mese di governo dell’ex presidente Felipe Calderón, questa “politica pubblica” basata sulla mano dura è diventata strutturale, così come la violenza estrema nel Paese. Ad oggi sono quasi 200.000 i morti per omicidio, 33.000 i desaparecidos e 310.000 i rifugiati interni. Che poi, a dire il vero, chi stia lottando esattamente contro chi resta in molti casi un mistero, nel senso che più della metà delle forze dell’ordine locali sono infiltrate dalla delinquenza organizzata, settori significativi del mondo politico sono finanziati dal narcotraffico, o cedono all’imposizione di candidati che sopravvivono grazie a patti d’impunità mafioso-giudiziari. Infine anche le forze armate e la polizia federale, largamente impiegate in questa guerra, sono in certi territori i gestori o supervisori dei traffici illeciti e hanno funzionato da contenimento per gli oltre 250 conflitti sociali aperti nel paese.
Messico: il Giorno dei 200mila Morti
Eppure rimane un Paese meraviglioso anche se ti devi fare parecchio i cazzi tuoi
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Il sogno infranto di Benjamin si chiamava Europa, la sua vita spezzata a 17 anni sull’asfalto di Tripoli
Il sogno infranto di Benjamin si chiamava Europa, la sua vita spezzata a 17 anni sull’asfalto di Tripoli
Si chiamava Benjamin e aveva 17 anni. A inizio mese anche lui era stato arrestato dalle autorità libiche in quell’enorme rastrellamento condotto dal governo, ufficialmente per motivi di sicurezza e di lotta al narcotraffico, che ha portato nei centri di detenzione ufficiali oltre 5.000 persone rinchiuse nelle solite condizioni che tutto il mondo conosce. Viene perfino difficile riscriverlo di…
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#dibattistafueraya, note a margine su zapaturismo, selfie e strumentalizzazioni
30 SETTEMBRE 2018 |IN CONFLITTI GLOBALI.
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Pubblichiamo il contributo di Nodo solidale e del blog L’America Latina che prendono parola sul dibattito, tutto italiano, scaturito dalla circolazione sui social della campagna di allerta #dibattistafueraya.
#dibattistafueraya, note a margine su zapaturismo, selfie e strumentalizzazioni
Dopo la diffusione della grafica sull’esponente del movimento 5stelle che metteva in guardia le comunità indigene, la stampa italiana ha ripreso la campagna contro Di Battista provocandone un'immediata reazione. Di seguito, quindi, slcune parole chiare e decise sul senso di questa “allerta” alle comunità indigene in lotta nel centro America.
(I principali articoli usciti sulla stampa: https://www.repubblica.it/politica/2018/09/28/news/_di_battista_via_dall_america_latina_persona_non_gradita_m5s_migranti-207586876/?ref=fbpr , https://www.vice.com/it/article/d3jdjz/campagna-social-per-cacciare-di-battista-america-latina )
#dibattistafueraya, note a margine su zapaturismo, selfie e strumentalizzazioni
Al signor Di Battista e ai giornalisti italiani che ci sembrano un po’ confusi rispetto alla cosiddetta “campagna” di allerta #dibattistafueraya e alla sua presunta diffusione in America Latina.
Intanto ci presentiamo: siamo un gruppo di persone, attivisti e attiviste italiane che vivono in Messico, e tra noi alcuni fanno riferimento al collettivo Nodo Solidale, altri al blog L’America Latina. Quando abbiamo letto il reportage intitolato “I nuovi zapatisti con la Coca-Cola”, uscito sul Fatto Quotidiano il 23 settembre a firma di Alessandro Di Battista, abbiamo sentito l’esigenza di avvisare le comunità e le resistenze con cui abbiamo contatti politici, costruiti in anni di permanenza e lavoro sul campo sia come attivisti sia come ricercatori, su chi fosse costui. Si tratta infatti di un personaggio che, approfittando della generosa ospitalitàdei popoli di queste terre, entra in incognito nelle comunità in resistenza per raccogliere informazioni, scattare fotografie e, infine, scrivere articoli di dubbia veridicità, fare pubblicità a se stesso e indirettamente legittimare le politiche razziste e xenofobedell’attuale governo italiano, guidato da un partito di cui è stato fondatore e di cui è tuttora un esponente molto in vista. Abbiamo deciso di avvisare le comunità perché in America Centrale hanno altro a cui pensare e non conoscono i volti e i profili politici della politica italiana.
I giornali italiani, con titoli come “Fascista vattene” o “Una taglia sul pentastellato” hanno strumentalizzato e travisato il nostro messaggio, tanto che sui social network siamo stati accusati di diffondere fake news. Per questo motivo, prima di tutto ci sembra opportuno offrire una traduzione corretta in italiano del testo incriminato:
“Allerta! A tutte le comunità e resistenze nuestroamericane. Attenzione. Questo signore, Alessandro Di Battista, sta viaggiando per il Centroamerica facendo reportage e foto sui processi di resistenza. Si presenta come un cooperante di sinistra, ma in realtà è un leader del M5S, partito italiano che è al governo, il quale sostiene posizioni fasciste e razziste contro migranti africani, asiatici e latinoamericani.”
Come si può notare, nel testo gli attributi di “fasciste e razziste” sono riferiti alle politiche dell’attuale governo italiano e non alla persona di Di Battista. L’obiettivo del nostro intervento, ripetiamo, è stato quello di comunicare alle comunità locali il ruolo di Di Battista nella politica italiana, affinché potessero prendere una decisione informatasul lasciarlo entrare o meno nei propri spazi. Non vi è quindi nessuna campagna di diffamazione né alcuna news da dichiarare fake, dato che si fa riferimento a cose scritte dallo stesso Di Battista sul Fatto Quotidiano. Inoltre, in nessun modo si è voluto far credere che l’avviso fosse stato ideato e diffuso dalle comunità locali, così come sostenuto da chi ci accusa. Se l’avviso non è rivendicato da una firma, non è per giocare su tale ambiguità, ma perché non siamo alla ricerca di pubblicità personale.
In incognito tra gli zapatisti
Quello che negli anni abbiamo imparato dai popoli dell’America Latina, come italiani, è proprio riconoscere il nostro privilegio coloniale. Abbiamo imparato che l’unico modo di appoggiare le lotte indigene e le resistenze di questo continente è quello di imparare ad ascoltare, di stare in silenzio, di tradurre e riportare le parole di questi popoli e non le nostre analisi e considerazioni spicciole, prodotto di uno sguardo etnocentrico e colonialista.
Il solo fatto di entrare in una comunità zapatista senza presentarsi per ciò che si è, ovvero un esponente di un partito al governo in un altro paese, è di per sé un fatto gravissimo. Lo è ancor di più se tale partito è alleato con una forza dichiaratamente di estrema destra che porta avanti politiche migratorie simili a quelle di Donald Trump negli Stati Uniti.
L’omissione sulla sua identità non può essere considerata una sottigliezza visto che dalla sua visita al caracol di Oventik nasce, appunto, uno scritto pubblicato a livello nazionale in cui non mancano elementi di un paternalismo trito, come quando dice di non spiegare agli zapatisti che lo accolgono chi veramente sia perché “sarebbe troppo complicato spiegarglielo”, sottintendendo che gli zapatisti non potrebbero capire -o forse che se l’avessero saputo non l’avrebbero fatto entrare? O elementi di pura banalità, come quando tira fuori la polemica trita e ritrita della Coca Cola, già ampiamente smontata dal fu Subcomandante Marcos. O elementi di grave e pericolosa falsità, come quando il nostro afferma che “la loro autonomia non è più minacciata dall’esercito nazionale e dai politici messicani”: niente di più falso. Niente di più nocivo per le stesse comunità, che negare la guerra di bassa intensità e la militarizzazione alla quale sono costantemente sottoposte, con il pretesto di una fittizia “guerra al narcotraffico” del governo. Tutti questi elementi sono ampiamente spiegati dal testo, uscito sul portale Camminar Domandando, dal titolo: “Sta rottura de cojoni degli zapaturisti”.
Per non parlare del fatto che, in un reportage anteriore, Di Battista, esattamente come aveva fatto il suo amico/nemico Roberto Saviano, ha avvalorato la tesi ufficiale del governo messicano per la quale i 43 studenti desaparecidos di Ayotzinapa sarebbero stati bruciati in una discarica, tesi di cui più volte si è provata la falsità e mala fede di funzionari e apparati dello Stato nel negare un crimine di lesa umanità (Link 1 GIEI-OAS – Link 2 Mastrogiovanni – Link 3 Lorusso). Questa tesi serve al governo per chiudere il caso e colpevolizzare fantomatici “cartelli” locali. Contro di essa i movimenti delle vittime, i genitori degli studenti e i movimenti sociali in generale si battono da 4 anni a questa parte. L’articolo di Di Battista è sintomo di una lettura quantomeno superficiale, e denota una grave e pericolosa disinformazione rispetto ai temi trattati.
“Un mundo donde quepan muchos mundos”
Una delle idee centrali dello zapatismo è riassunta nella frase Un mundo donde quepan muchos mundos, “Un mondo che contenga molti mondi”. È un concetto nato al calore del movimento No Global per un altro mondo e un’altra globalizzazione come orizzonti possibili, il quale vuole celebrare l’apertura radicale, dal basso e a sinistra, alla molteplicità di razze, persone, generi, culture, orientamenti sessuali e migrazioni. L’autonomia zapatista è la lotta per la difesa della vida digna e del territorio, e non per la salvaguardia di interessi nazionali. A Genova nel 2001 ci si oppose alla globalizzazione neoliberale con lo slogan “libertà di movimento, libertà senza confini“.
Niente a che vedere con il sovranismo nato dal vento di estrema destra che sta invadendo l’Europa. Niente a che vedere con il letale blocco dei porti. Niente di più lontano dalla critica alla globalizzazione che Di Battista traccia rozzamente nel suo “reportage”, nel quale si mescolano le terminologie e il sovranismo nazionalista del governo italiano viene confuso con la sovranità alimentare e l’autonomia per le quali le comunità zapatiste, e non solo, hanno lottato e lottano.
Con la mediatizzazione del suo viaggio in America Latina ci pare che Di Battista voglia giustificare il tendenzioso “aiutiamoli a casa loro”, con l’obiettivo di dare un volto umano a politiche di respingimento e allo sdoganamento di discorsi xenofobi. Altrettanto strumentali ci sembrano le sue considerazioni sul razzismo, come quando afferma che “è un fenomeno legato all’ignoranza e alla povertà”. Anche in questo caso, Di Battista sorvola sulle nozioni di suprematismo bianco e colonialismo che stanno alla base del razzismo.
La PDiozia di Ale
Nella diretta Facebook in cui ha risposto alla “tremenda campagna” diffamatoria rivolta alla sua persona, Di Battista, sottintende l’esistenza e la possibilità di una sola sinistra, alludendo al PD e al marcio mondo che lo circonda. Ci teniamo a mettere in chiaro una cosa. La nostra avversità nei confronti di Repubblica e De Benedetti è totale. Il loro classismo neo-pariolino e il razzismo di 5 Stelle e Lega sono due facce della stessa medaglia, si alimentano e legittimano a vicenda come strategie diverse di una stessa guerra ai poveri.
Non abbiamo nulla da spartire né con i seminatori d’odio razziale che ci nascondono quotidianamente la figura dei padroni per esibire solo il facile bersaglio dei migranti, né con la falsa “sinistra” del Partito Democratico, e di Banca Etruria. Noi non pensiamo che la globalizzazione neoliberista si contrasti scaricando il suo peso sugli ultimi, facendo affondare i barconi di migranti in mare o sparandogli nelle vie di Macerata, ma affrontandone le cause, l’accumulazione di capitale su scala globale e le conseguenti disuguaglianze, costruendo autonomie e alleanze a livello internazionale, contro tutti i confini.
Vogliamo riaffermare l’esistenza di un’opposizione sociale in Italia, come nel mondo, che si posiziona in basso a sinistra e che è composita e variegata. L’abbiamo vissuta e attraversata nei movimenti contro il Jobs Act, la Buona Scuola, i decreti Minniti-Orlando e Salvini (drammaticamente simili tra loro), nel movimento globale Non una di meno contro la violenza maschile e di genere, nelle lotte autonome dei migranti, nella risposta popolare agli attentati razzisti di Macerata e non solo. Quell’opposizione sociale che in Messico indossa il passamontagna e lotta per la autonomia nelle montagne del Chiapas. Quell’opposizione sociale che tutt’ora ci permette pronunciare la parola “politica” senza doverci vergognare.
Così, come abbiamo appoggiato queste lotte in Italia, siamo solidali con le lotte dal basso e a sinistra in America Latina tutti i giorni, e non lo facciamo per andare a caccia di selfie, voti e visibilità sul Fatto Quotidiano.
PS: mentre sulle reti sociali montava la polemica sulla “bufala” della nostra campagna, sul “povero” Di Battista in presunto pericolo di vita perché minacciato da comunità armate, ci giunge la notizia che a Roma, città amministrata dal Movimento 5 Stelle, è in corso uno sfratto. Nel quartiere di Villa Gordiani varie persone, tra cui una pensionata di 70 anni, sono state sfrattate da case popolari e quattro di loro sono agli arresti. Tutto questo ci ferisce molto, ma molto di più del tuo viaggio da Lonely Planet in Centroamerica, caro Dibba.
“La IV Guerra Mondiale, con il suo processo di distruzione/spopolamento e ricostruzione/riordinamento, provoca la dislocazione di milioni di persone. Il loro destino sarà di continuare ad essere erranti portandosi il proprio incubo sulle spalle, e di rappresentare, per i lavoratori impiegati nelle diverse nazioni, una minaccia alla loro stabilità lavorativa, un nemico utile a nascondere la figura del padrone, e un pretesto per dare un senso all’insensatezza razzista che il neoliberismo promuove.”
Subcomandante Marcos, Le sette tessere ribelli del rompicapo globale
“Bisogna organizzarsi. Bisogna resistere. Bisogna dire “NO” alle persecuzioni, alle espulsioni, alle prigioni, ai muri, alle frontiere. E bisogna dire “NO” ai malgoverni nazionali che sono stati e sono complici di questa politica di terrore, distruzione e morte. Da sopra non verranno le soluzioni, perché lì sono nati i problemi.”
Subcomandante Insurgente Moises, Subcomandante Insurgente Galeano, I muri sopra, le crepe in basso (e a sinistra)
https://lamericalatina.net/
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Filippine, Chiesa repressa in un paese cattolico
Nelle Filippine, paradossalmente, si profila un caso di persecuzione della Chiesa cattolica in uno dei Paesi più cattolici del mondo. Il presidente Duterte, nella sua campagna anti-droga, ha provocato migliaia di morti. La Chiesa denuncia il crimine e per questo finisce nel mirino. Accuse di "sovversione" per 4 vescovi e 3 sacerdoti.
di Stefano Magni (29-07-2019)
Nelle Filippine, paradossalmente, si profila un caso di persecuzione della Chiesa cattolica in uno dei Paesi più cattolici del mondo.
La maggioranza dei filippini, infatti, ha votato, per motivi di ordine pubblico, un presidente dichiaratamente anti-clericale e di origine ideologica comunista. Rodrigo Duterte, eletto su un programma “legge e ordine”, di lotta dura al narcotraffico, ha partecipato personalmente a uccisioni extragiudiziali, (come lui stesso ha ammesso) e sta conducendo la campagna contro la droga con gli stessi metodi: uccidendo senza processo migliaia di persone accusate di spaccio. Mentre le autorità giustificano queste esecuzioni come “auto-difesa”, la Chiesa denuncia il crimine. E per questo è finita, per prima, nel mirino delle autorità.
Le dimensioni esatte del massacro, commesso nel nome della lotta alla droga, sono tuttora sconosciute, ma già nell’ordine delle migliaia di vittime. La polizia filippina ammette 6600 morti, tutti dichiarati come casi di legittima difesa. I dubbi iniziano quando si vede che alcuni di questi uccisi non potevano costituire una minaccia per gli agenti. Uno degli ultimi episodi, infatti, riguarda l’uccisione di una bambina di appena tre anni, Myca Ulpina, il 29 giugno scorso, nei pressi della capitale Manila. Secondo la versione ufficiale, il padre, braccato dalla polizia, l’avrebbe usata come scudo umano. Secondo la versione degli oppositori e delle associazioni locali per la difesa dei diritti umani, la bambina è vittima di una più vasta campagna di terrore indiscriminato. Secondo gli attivisti, la polizia sta usando liste nere (“liste di controllo”) per individuare sospetti sulla base di delazioni di informatori, poi fa irruzione nelle abitazioni dei presunti spacciatori e trafficanti e alla fine il sospettato non esce vivo dall’ispezione. Solo negli ultimi sei mesi, i morti sono stati 1600. E i dati della polizia non tengono conto delle uccisioni extragiudiziali ad opera dei vigilantes. Includendole, secondo le stime delle Ong locali, si arriverebbe a contare fino a una cifra compresa fra i 27mila e i 30mila morti. Sulla tragedia delle Filippine, l’Onu ha aperto un’indagine, che verrà presentata al Consiglio per i Diritti Umani fra un anno, nel giugno del 2020.
La Chiesa è in prima linea nel denunciare i crimini. E’ di questa settimana l’iniziativa della diocesi di San Carlos (Negros Occidentale, nelle Filippine centrali) di suonare le campane delle parrocchie, delle missioni e delle case del clero “finché le uccisioni non cesseranno��, come ha annunciato il vescovo Gerardo Alminaza. Nella sua diocesi si contano almeno 74 morti nelle uccisioni extragiudiziali, 7 solo nell’ultima settimana. “Per favore, parlate - chiede mons. Alminaza ai funzionari e agli amministratori pubblici - Non fate che il vostro silenzio si sommi al numero crescente di omicidi. Non lasciare che il tuo silenzio incoraggi i criminali”. E, rivolgendosi a polizia ed esercito: “Mantenete la pace, non create ulteriore violenza! Agite nel rispetto della legge, non oltre”.
L’attivismo della Chiesa è stato prontamente “ripagato” dalle autorità con accuse di sedizione. In un’ultima ondata repressiva sono state messe in stato di accusa 40 sospetti di “incitamento alla sedizione, calunnie online e ostacolo alla giustizia”. Fra i quaranta figurano anche quattro vescovi: Honesto Ongtioco (di Cubao), Pablo Virgilio David (di Kalookan), Teodoro Bacani (di Novaliches) e Socrates Villegas (di Lingayen-Dagupan). E tre sacerdoti: Flaviano Villanueva, Albert Alejo e Robert Reyes. “Si vuole spaventare quegli uomini di Chiesa che criticano il governo e metterli a tacere – ha commentato la Conferenza Episcopale delle Filippine - I nostri fratelli non hanno mai combattuto il governo o Duterte: sono contro le politiche repressive che danneggiano i poveri”. Per monsignor Romulo Valles, presidente della Conferenza Episcopale, le accuse di sedizione “sono incredibili, andiamo oltre il razionale. Si tratta di persone che amano la patria e hanno una coscienza limpida”. Per don Robert Reyes, uno degli accusati, “Si tratta di una mossa patetica per distrarre la popolazione dall'avvento del totalitarismo. Questa decisione potrebbe dare la sveglia agli indecisi e agli indifferenti”.
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Soldado
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Soldado è un film di genere azione, drammatico, thriller del 2018, diretto da Stefano Sollima, con Benicio Del Toro e Josh Brolin. Uscita al cinema il 18 ottobre 2018. Durata 124 minuti. Distribuito da 01 Distribution.
DATA USCITA: 18 ottobre 2018 GENERE: Azione, Drammatico, Thriller ANNO: 2018 REGIA: Stefano Sollima ATTORI: Benicio Del Toro, Josh Brolin, Catherine Keener, Matthew Modine, Manuel Garcia-Rulfo, Isabela Moner, Jeffrey Donovan, Christopher Heyerdahl, Shea Whigham, Jake Picking, David Castañeda PAESE: USA, Italia DURATA: 124 Min DISTRIBUZIONE: 01 Distribution
TRAMA SOLDADO: In Soldado, ovvero Sicario 2, la serie action-thriller inizia un nuovo capitolo, che segna il debutto americano del regista romano Stefano Sollima.
Nella guerra di droga non ci sono regole e la lotta della CIA al narcotraffico al confine fra Messico e Stati Uniti si è inasprita da quando i cartelli della droga hanno iniziato a infiltrare terroristi oltre la frontiera americana. Per combattere i narcos l’agente federale Matt Graver (Josh Brolin) dovrà assoldare il misterioso e impenetrabile Alejandro (Benicio Del Toro), la cui famiglia è stata sterminata da un boss del cartello della droga, per aumentare l’efferatezza della guerra. Alejandro scatenerà una vera e propria, incontrollabile battaglia tra bande in una missione che lo coinvolgerà in modo molto personale. Rapisce, infatti, la figlia del boss per scatenare il conflitto, ma quando la ragazza viene considerata un danno collaterale, il suo destino si metterà tra i due uomini che si interrogano su tutto quello per cui combattono.
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